La didattica nell'era digitale

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PAOLO BENANTI | Facoltà di Teologia

di PAOLO BENANTI

Facoltà di Teologia

La pandemia ha accelerato il processo di digitalizzazione
nella società, portando alla luce nuove opportunità e sfide.
Anche la Gregoriana ha rimodulato la propria offerta formativa
con l’adozione della piattaforma
Moodle e la didattica integrata
tra modalità digitale e in presenza. Un cambiamento
che va oltre la situazione emergenziale e interroga la nostra missione

Viviamo in una società e in un tempo caratterizzato dal digitale, l’era digitale (Digital Age) secondo l’espressione di Marc Prensky, un periodo complesso a causa dei profondi cambiamenti che queste tecnologie stanno producendo. La pandemia di Covid-19 ha accelerato una serie di processi che stavano già da tempo cambiando la società. La Gregoriana, oltre alla comprensione intellettuale di questa trasformazione, con l’adozione della piattaforma Moodle e la didattica integrata tra modalità digitale e in presenza, è passata dal conosciuto teorico alla sfida pedagogica della formazione in un contesto di cambiamento d’epoca.

 

Una premessa: l’era digitale

L’effetto della esponenziale digitalizzazione della comunicazione e della società sta portando, a detta di studiosi come Prensky, a una vera e propria trasformazione antropologica: l’avvento dei nativi digitali. “Nativo digitale” (digital native) è un’espressione che viene applicata a una persona che è cresciuta con tecnologie digitali come i computer, internet, telefoni cellulari e MP3. L’espressione viene utilizzata per indicare un nuovo e inedito gruppo di studenti che sta accedendo al sistema dell’educazione. I nativi digitali nascono parallelamente alla diffusione di massa dei computer a interfaccia grafica nel 1985 e dei sistemi operativi a finestre nel 1996. Il nativo digitale cresce in una società multischermo, considera le tecnologie come un elemento naturale, e non prova alcun disagio nel manipolarle e interagire con esse.

Per contro, Prensky conia l’espressione “immigrato digitale” (digital immigrant) per indicare una persona che è cresciuta prima delle tecnologie digitali e le ha adottate in un secondo tempo. Una delle differenziazioni tra questi soggetti è il diverso approccio mentale che hanno verso le nuove tecnologie: ad esempio un nativo digitale parlerà della sua nuova macchina fotografica (senza definirne la tipologia tecnologica) mentre un immigrato digitale parlerà della sua nuova macchina fotografica digitale, in contrapposizione alla macchina fotografica con pellicola chimica utilizzata in precedenza. Un nativo digitale è come plasmato dalla dieta mediale a cui è sottoposto: in cinque anni, ad esempio, trascorre 10mila ore con i videogames, scambia almeno 200mila email, trascorre 10mila ore al cellulare, passa 20mila ore davanti alla televisione guardando almeno 500mila spot pubblicitari dedicando, però, solo 5mila ore alla lettura. Questa dieta mediale produce, secondo Prensky, un nuovo linguaggio, un nuovo modo di organizzare il pensiero che modificherà la struttura cerebrale dei nativi digitali.

Multitasking, ipertestualità e interattività sono solo alcune caratteristiche di quello che appare come un inedito modo di comprendere e comunicare dell’essere umano. Inoltre Prensky sostiene che, sia pure in modo irregolare e alla nostra personale velocità, ci muoviamo tutti verso un potenziamento digitale che include le attività cognitive. Gli strumenti digitali già estendono e arricchiscono le nostre capacità cognitive in molti modi: la tecnologia digitale migliora la memoria, per esempio attraverso gli strumenti di acquisizione, archiviazione e restituzione dei dati. La raccolta digitale di dati e gli strumenti di supporto alle decisioni migliorano la capacità di scelta consentendoci di raccogliere più dati e verificare tutte le implicazioni derivanti da quella domanda. Il potenziamento digitale in ambito cognitivo – reso possibile da laptop, database online, simulazioni tridimensionali virtuali, strumenti collaborativi online, tablet e da una serie di altri strumenti specifici per diversi contesti – è oggi una realtà in molte professioni, anche in campi non tecnici come la giurisprudenza e le discipline umanistiche.

 

Un discernimento illuminato dalla fede

Appare così evidente come la questione, specie nella pervasività sociale e culturale dell’era digitale, ci cambi, tanto nel modo di comprenderci quanto in quello di comprendere il mondo. Questo risulta particolarmente evidente per le giovani generazioni. Oggi il giovane adulto è un’isola in un arcipelago di relazioni reali, presunte o immaginate e sembra che le nuove generazioni non sempre siano formate e culturalmente attrezzate per affrontare la sfida che la società digitale propone. I media, per loro stessa natura, sono elementi che si interpongono tra noi e il reale: ci forniscono versioni selettive del mondo, più che un accesso diretto ad esso, combinando insieme diversi linguaggi in un testo che viene comunicato e diffuso con i tratti della globalità e dell’istantaneità.

Ci sembra che si debba parlare con urgenza di una educazione ai media o media education. L’esito di questa educazione è la cosiddetta competenza mediale (media literacy) che appare quanto mai urgente specie per le nuove generazioni. Essa include, secondo l’autorevole parere del pedagogista tedesco Dieter Baacke, diverse dimensioni che possono essere riassunte così: la capacità critica dei mezzi di comunicazione di massa; la mediologia; la capacità di uso; la capacità di creazione mediatica.

Normalmente si usa descrivere questa competenza come “alfabetizzazione”. Questo termine ci sembra oggi quanto mai adatto per chiederci se non siamo di fronte a una nuova forma di analfabetismo. L’analfabetismo, strictu sensu, è l’incapacità completa di saper leggere e scrivere, dovuta per lo più a un’istruzione o a una pratica insufficiente. In senso più lato, l’analfabetismo indica anche l’ignoranza di argomenti considerati di fondamentale importanza, ad esempio l’analfabetismo informatico o politico. Oggi si usa parlare anche di “analfabetismo funzionale”, con il quale si designa l’incapacità di un individuo di usare in modo efficiente le abilità di lettura, scrittura e calcolo nelle situazioni della vita quotidiana. Non si tratta quindi di un’incapacità assoluta, in quanto l’individuo possiede comunque una conoscenza di base di lettura e scrittura, che usa però in maniera incompleta e non ottimale.

 

 

Sappiamo distinguere il valore dell’informazione?

A partire dal 1958, l’UNESCO definisce l’analfabetismo come la condizione di una persona che non sa né leggere né scrivere, capendolo, un brano semplice in rapporto con la sua vita giornaliera. La condizione di abbandono in cui lasciamo le nuove generazioni di nativi digitali e l’assenza di formazione per gli “immigrati digitali” sta infatti generando un “analfabetismo digitale” in cui i testi che i media digitali producono diventano inaccessibili ai più a livello di valutazione oggettiva e valoriale. Questa inedita condizione, in cui non sappiamo più distinguere il valore dell’informazione che, come un fiume in piena, ci sommerge quotidianamente, può portare forse a una condizione di incapacità di autonomia dei cittadini nella società. Inoltre da più parti si riconosce come i media, specie quelli di natura digitale, siano gli agenti di socializzazione nella società contemporanea, arrivando – secondo alcune analisi – a sostituire gli agenti tradizionali quali la famiglia, la Chiesa e la scuola.

Non dobbiamo pensare che queste nostre considerazioni vadano tradotte in una visione che tratteggi una onnipotenza dei media, ma semplicemente si riconosce, dall’analisi fenomenologica proposta, come i media, specialmente quelli che caratterizzano l’era digitale, sono radicati nel tessuto e nelle abitudini quotidiane e forniscono risorse simboliche che oggi ciascuno di noi, coscientemente o meno, impiega per condurre e interpretare le relazioni e definire la sua identità. Ci troviamo di fronte a un problema etico legato all’identità e all’educazione delle nuove generazioni, ma anche di fronte a un problema religioso: nella fede capiamo la vita come una vocazione, e la Relazione con il Cristo Signore come capace di illuminare tutte le altre relazioni.

 

Una visione critica dell'apprendimento digitale

Su un piano operativo dobbiamo stimare e comprendere i limiti degli apprendimenti impliciti che l'era digitale fornisce quotidianamente. Alcune perplessità  nascono anche guardando al fatto che - con il facile accesso a Internet, alla posta elettronica (e-mail) e ai social network - molte forme di interazione personale sono diventate virtuali. soppiantando per intero il bisogno di forme di relazione tradizionali. L’esplosione della tecnologia digitale fa inoltre temere i rischi insiti in un divario eccessivo tra digitali ricchi e poveri, non solo a livello di persone, ma di nazioni. Si è introdotto a tal riguardo il termine digital divide, o divario digitale, a indicare il divario esistente tra chi ha accesso effettivo alle tecnologie dell’informazione (in particolare computer e Internet) e chi ne è escluso, in modo parziale o totale. Oltre a indicare il divario nell’accesso reale alle tecnologie, la definizione include anche disparità  nell’acquisizione di risorse o capacità  necessarie a partecipare alla società  dell’informazione.

Infine ci sembra opportuno sollevare domande su quale sistema di valori la comunicazione offre ai giovani adulti su temi quali: il senso della vita, la corporeità, l’affettività, l’identità di genere, la giustizia e la pace. Nel secolo scorso Harold Innis ha mostrato con le sue tesi come i media non siano mai neutrali; per loro stessa natura, essi strutturano sia le interazioni tra gli individui sia la forma e la circolazione delle conoscenze; la società può solo modellare e dare indicazioni (entro certi limiti) ai media che si vanno via via sviluppando.

Il modo con cui stiamo rimodulando la nostra offerta formativa, allora, non è solo una risposta contingente a sfide sanitarie, ma è chiamata anche ad essere il frutto del discernimento su quanto e come l’era digitale interroga la nostra missione.