Quale futuro per la democrazia?

Intervista a Vittorio V. Alberti per i 20 anni del Seminario permanente "Giuseppe Vedovato"

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Paolo Pegoraro | Direttore Editoriale

di Paolo Pegoraro

Direttore Editoriale

Da 20 anni è attivo presso la Gregoriana il Seminario permanente
“Giuseppe Vedovato” sull’etica nelle relazioni internazionali
per sollecitare lo studio e la ricerca nei temi più scottanti delle scienze sociali.
Oggi questo significa affrontare la crisi della democrazia
e gli attacchi che subisce, ritrovandone il valore per il bene
di tutti i continenti, dall’Europa all’Africa.​​​​​​​

Il Seminario permanente “Giuseppe Vedovato” sull’etica nelle Relazioni internazionali ha tagliato il traguardo dei venti anni dalla sua istituzione. Il senatore Vedovato trovò interlocutori attenti nell’allora Rettore Franco Imoda S.I. e nel Prof. Giulio Cipollone, divenendo amico e benefattore della Gregoriana, alla quale volle donare la propria biblioteca privata e una raccolta di reperti etno-antropologici. Il Premio annuale a lui intitolato vuole stimolare la ricerca scientifica nel campo dell’etica nelle relazioni internazionali e nei suoi risvolti giuridici, economici, sociali, politici e religiosi. La sua generosità ha permesso la celebrazione biennale del convegno del Seminario permanente su temi di stretta attualità. “Democrazia per il bene comune” è stato il tema del convegno celebrato lo scorso 27 marzo, con una lectio magistralis di Mons. Paul Richard Gallagher, Segretario per i Rapporti della Santa Sede con gli Stati e le Organizzazioni Internazionali. Ne parliamo con Vittorio V. Alberti, docente presso la Facoltà di Scienze Sociali.

Perché un’università pontificia si dedica all’etica nelle relazioni internazionali?

«Da trent’anni, la politica internazionale cerca un nuovo equilibrio, anche culturale. Caduta del Muro di Berlino, rivoluzione tecnologica, terrorismo internazionale, crisi economica e poi del capitalismo finanziario, pandemia e invasione dell’Ucraina segnano il nuovo “disordine mondiale”. Come si colloca in questo contesto un’università come la Gregoriana? Il Seminario “Giuseppe Vedovato”, intitolato a una figura ispirata da una visione europeista e democratica, potrà diventare punto di riferimento formidabile, anche nel dibattito pubblico, per promuovere la ricerca sul futuro della democrazia in un mondo in radicale mutamento».

Si parla apertamente di crisi della democrazia. L’Europa ha ancora qualcosa da dare?

«L’Europa – pur tra tanti dilemmi – continua a essere il luogo dove si cerca di conciliare giustizia con libertà. I padri fondatori, dopo secoli di guerre, hanno creato la nuova Unione puntando sulla giustizia sociale, sulla libertà economica e sulla forza del ceto medio: senza un ceto medio forte e informato, non c’è democrazia. Oggi invece si assiste una nuova divaricazione tra ricchi e poveri, alla corruzione dei linguaggi, dell’istruzione e dei prodotti culturali, e a un acuirsi degli impulsi autoritari. Dobbiamo costruire una nuova filosofia politica centrata su un umanesimo all’altezza del nostro futuro. L’Università Gregoriana ha un corpo docente internazionale di alto valore accademico e culturale, e può essere protagonista in questa operazione».

Da dove dovrebbe ripartire, una nuova filosofia politica?

«Dal migliore umanesimo europeo: dall’educazione e dall’istruzione, necessarie per creare l’armatura di giustizia della persona: senza di esse, si è schiavi di qualunque potere, anche religioso. Ripartire da quello che, come si vede bene in Dante, è il primo dono dell’uomo: la libertà. Occorrono una nuova idea di laicità che superi gli integrismi, una nuova idea di natura, riscoprendo la Grecia antica e figure come Francesco d’Assisi, che è un “ambientalista”, una nuova estetica ecc.».

 

 

La Facoltà di Scienze Sociali ha un alto numero di iscritti dall’Africa. Come si rapporta con il più giovane dei continenti?

«La Gregoriana è un ente privilegiato per l’alta percentuale di studenti dall’Africa e per i contatti che ha costruito lì da tempo. Cosa significa, oggi, formare la classe dirigente africana? Strutturare un collegamento tra enti educativi tra qui e l’Africa, e tra Paesi africani. Lì, l’indicatore in continua crescita è proprio l’istruzione da osservare insieme al fattore demografico. Significa aiutarsi a vicenda (noi e loro) con programmi concreti che colpiscano, attraverso la cultura, in primo luogo le molteplici forme di corruzione, che qui e lì, inquinano la storia. Questa è politica culturale? Senz’altro. Non “colonialismo culturale”».

Perché neppure il magistero sociale non incontra più le speranze che suscitava un tempo?

«Come mai Laudato Si’ o Caritas in Veritate non hanno creato lo stesso movimento che in altri tempi sorse dalla Rerum Novarum? Dobbiamo fare i conti con la crisi culturale: oggi si pensa che il mondo non possa essere diverso da come è stato, cioè non si crede nel futuro. Anche la Chiesa deve stare attenta a non accontentarsi di parole d’ordine e slogan, magari citando Papa Francesco, ma poi facendo il contrario nei fatti. Per esempio, “ecologia integrale”, “sviluppo integrale”, “chiesa in uscita”, “discernimento” sono diventate parole d’ordine che devono trovare forme serie di realizzazione. Penso a una grande figura del passato, Enrico Mattei, fondatore dell’Eni, che ha contribuito a costruire la democrazia e lo sviluppo di questo Paese: andava in Africa e stabiliva rapporti di partneriato pressoché alla pari, e costruiva su queste basi».