Nuovi paradigmi per rilanciare il pensiero critico

Intervista a P. Délio Mendonça, S.I. nuovo Decano della Facoltà di Storia e Beni Culturali della Chiesa

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Paolo Pegoraro | Direttore Editoriale

di Paolo Pegoraro

Direttore Editoriale

Ripensare lo studio della storia e dei beni culturali della Chiesa
considerando che, se è vero che “tutte le strade portano a Roma”,
essa si è arricchita anche attraverso la sua apertura al resto
del mondo. Dando indietro, a piene mani. È questo l’antidoto
all’autorefenzialità: un approccio transdisciplinare e inclusivo.

«Sono nato in Mozambico e ho vissuto la mia adolescenza in questo Paese. In seguito, ho fatto gli studi religiosi e civili in diverse parti dell’India. E adesso, ecco una ricca esperienza in un terzo continente». Si presenta così P. Vitor Délio Jacinto de Mendonça S.I. nuovo Decano della Facoltà di Storia e Beni Culturali della Chiesa a partire dal 20 febbraio 2023, quando è succeduto a P. Marek Inglot S.I. Ed è naturale chiedergli come si vive lo studio della Storia e dei Beni Culturali della Chiesa in un contesto culturale diverso da quello europeo, che ha plasmato queste discipline in maniera dominante. «Lo studio della storia e dei beni culturali della Chiesa in India, dove il cristianesimo è la religione che rappresenta meno del 3% della popolazione, è piuttosto marginale. Ciò nonostante, si studia la storia della Chiesa in India nel suo contesto di diversità sociale, culturale e religiosa, ossia in una situazione di pluralismo filosofico e teologico. Il vantaggio di studiare la storia e i beni culturali della Chiesa in questa prospettiva è che si possono evitare i rischi dell’autoreferenzialità e della relativa povertà di suddetta storia».

Un adagio italiano dice che “tutte le strade portano a Roma”. Dal punto di vista della storia e dei beni culturali della Chiesa, come è arricchita la Facoltà dall’esperienza degli studenti di altri continenti? E come prepararli alle sfide che si affrontano laddove la Chiesa è più giovane?

«Questo adagio ci rimanda alla storia dell’Impero romano e della cristianità quando Roma era suppostamente il centro del mondo. E se oggi vogliamo riprenderlo come metafora, non è meno vero che tutte queste strade che portano a Roma hanno un inizio e una fine fuori da Roma. Roma infatti si è arricchita pure attraverso la propria apertura al mondo. Gli studenti della Facoltà provengono da diverse nazioni e culture, e portano con sé una ricca conoscenza che va ascoltata. Alla fine del loro percorso accademico in Gregoriana, riporteranno nel loro Paese di origine una nuova e arricchita esperienza. E naturalmente questo richiede uno sforzo. Vorrei che la Facoltà di Storia e Beni Culturali della Chiesa scoprisse che ci sono altri paradigmi, e altre strade».

 

 

La costituzione apostolica Veritatis Gaudium mette in guardia gli studi ecclesiastici dai rischi dell’autoreferenzialità. Anche la Facoltà, che pure vanta un alto numero di studenti laici, si interroga su questi temi?

«L’insufficienza di apertura al mondo e all’universalismo, e all’ascolto e al pensiero critico ci porta all’autoreferenzialità come apparato di superiorità. Ci fa pensare che siamo la ragione del mondo. È la via larga che ci porta alla nostra irrilevanza politica e culturale per la società. Un approccio accademico transdisciplinare, inclusivo e aperto a tutte le domande è il cammino stretto ma sicuro. I sacerdoti dovrebbero ascoltare creativamente, e di più, i loro colleghi laici».

Lei ha pubblicato un volume sull’artista indiano Angelo da Fonseca (1902-’67), adoperando non solo le categorie estetiche, ma quelle della missione, dell’inculturazione e anche della protesta. Pensa che occorra dare maggiore rilevanza alla dimensione politica e sociale dei beni culturali?

«Certamente, non si può ignorarla. Non c’è arte senza ideologia, non c’è arte che sia non-politica. Tutta l’arte sostiene l’uno o l’altro sistema politico e sociale. Un sistema sociale produce una certa arte che a sua volta lo sostiene. Ma se l’arte è anche un riflesso della società, e nella società non tutto è bello o giusto, bisogna considerare anche l’arte come protesta, che va oltre l’idea della bellezza e categorie estetiche e formali. Vorrei che il Dipartimento dei Beni Culturali della nostra Facoltà inculcasse nelle nostre studentesse e nei nostri studenti che l’arte ci fa sognare, ci fa pensare come i profeti, e non ci fa mai dimenticare i poveri, parafrasando le parole recenti di Papa Francisco agli artisti. Il libro Fonseca sviluppa, tra le altre, anche queste idee».

Fino al 2005 il nome della Facoltà faceva riferimento alla “Storia Ecclesiastica”, mentre in seguito cambiò in “Storia della Chiesa”. Quanto viene data voce alla base – il popolo di Dio – nell’insegnamento della storia della Chiesa?

«Credo che il cambio di nome della Facoltà abbia segnato una svolta sia nell’oggetto dello studio che nella metodologia di studio della storia della Chiesa, andando oltre la visione tradizionale della gerarchia e degli ordini religiosi come unici attori storici. Questa svolta ci ha mostrato il popolo cristiano come attore della propria storia e costruttore della medesima Chiesa, non sopra il resto della storia, ma come parte di essa. Ci ha portati allo studio scientifico dei beni culturali della Chiesa. Questo nuovo approccio mostra che la storia della Chiesa non può essere una disciplina ausiliaria alla teologia, ma che necessita di autonomia e di un metodo proprio. La Chiesa è studiata come una istituzione sociale, culturale e politica, che è “nel” e pure “del” mondo. E così, oltre alla specifica dimensione spirituale della Chiesa, possiamo studiare il suo patrimonio culturale come riproduttore di un sistema politico e culturale. Tutto questo era già sotteso nel cambio di nome della Facoltà nel 2005? Non ne sono sicuro ma, dopotutto, la storia è anche interpretazione».