Il processo sotto Leone XIII

Raramente nelle biografie di Roberto Bellarmino si trova riportata la notizia relativa alla ripresa del suo processo di beatificazione durante il pontificato di Leone XIII. Questo episodio è in effetti poco o nulla conosciuto e nell'allestimento di questo percorso espositivo se ne è trovata notizia solo grazie allo studio della corrispondenza di Xavier Marie Le Bachelet. Uno dei primi documenti di questa collezione è infatti la trascrizione di una dichiarazione che il padre Camillo Beccari, postulatore generale della Compagnia di Gesù, rese nel novembre del 1902 a un gesuita belga residente al Collegio Germanico, Wilhem Arendt (1852-1937), il quale la inviò poi a Le Bachelet che in quegli anni stava iniziando a lavorare con sempre maggiore impegno al progetto di pubblicazione degli scritti inediti del Bellarmino.

Le Bachelet
Fig.1 - Frontespizio dell'opuscolo di Giuseppe Toscanelli. [Fonte: GoogleBooks].

Il contenuto del testo è molto interessante poiché consente di ricostruire a grandi linee i motivi che portarono a una rapida sospensione del processo. La dichiarazione di Beccari riporta infatti il resoconto di una conversazione che egli ebbe con il card. Gaetano Aloisi Masella, prefetto della Congregazione dei Riti tra il 1889 e il 1897. La causa di Bellarmino, si apprende,venne riaperta nel 1890 e, come in passato, si trovò subito condizionata da quelli che Beccari chiama i «maneggi poco onesti di nemici della Compagnia». Sebbene, come si vedrà, l'evento che determinò la sospensione fu un altro, già in questa fase iniziale i detrattori fecero pervenire ai cardinali della Congregazione e ai suoi consultori una ristampa contraffatta del famoso votum del card. Domenico Passionei edito a Venezia nel 1761, con il quale venne affossato il processo riaperto nel 1748 sotto Benedetto XIV e si posero serissimi dubbi in merito alle qualità morali di Bellarmino, ritenute tutt'altro che conformi al carattere di un aspirante alla beatificazione. 

Ad ogni modo, come si accennava, la decisione di Leone XIII di sospendere la causa fu motivata da un'altra ragione, che, in un certo senso, riguardava molto più da vicino anche le posizioni politiche assunte nel corso del suo pontificato. Nel 1890, infatti, il deputato italiano Giuseppe Toscanelli pubblicò un pamphlet che riportava l'eloquente titolo Religione e patria osteggiate dal Papa. L'Italia si deve difendere, il quale lasciava facilmente intendere l'orientamento anti-clericale del testo (un'analisi di esso è fornita da Danilo Barsanti, Giuseppe Toscanelli. "Er deputato de' Pontaderesi", Pisa, ETS, 2013, pp. 107-112). Prima di allora, tuttavia, Toscanelli - patriota nel Risorgimento - non poteva certo essere annoverato tra i nemici della Chiesa presenti in Parlamento, dove sedeva da trent'anni e sempre come espressione di un voto cattolico, tanto che nella prefazione del suo scritto egli stesso ammetteva di aver «costantemente combattuto i disegni di legge ostili alla Chiesa», sempre nell'ottica di favorire la conciliazione tra lo Stato italiano e quello pontificio. Ciò che Toscanelli andava criticando nel suo opuscolo era la politica di Leone XIII, giudicata lesiva nei confronti dell'Italia e degli stessi cattolici italiani poiché ostinata nel voler ripristinare un potere temporale della Chiesa che egli riteneva ormai inesigibile, tanto più se per ripristinarlo si faceva ricorso al cosiddetto non expedit, definita la «la più irreligiosa e anticattolica» delle formule - con la quale, successivamente alla presa di Roma, si era impedita la partecipazione dei cattolici alla vita pubblica dello Stato.

Come entrava Bellarmino all'interno di questa contesa politica? Fu lo stesso Toscanelli a chiamarlo in causa per sostenere la sua tesi, ponendo in esergo al suo scritto uno dei passaggi più discussi dell'opera del teologo gesuita

«Licet resistere pontifici invadenti animas, vel turbanti rempublicam, et multo magis si Ecclesiam destruere videretur. Licet inquam et resistere, non faciendo quod iubet, et impediendo ne exequatur volontatem suam. Non tamen licet eum iudicare, vel punire, vel deponere, quod non est nisi superioris»

che il deputato toscano traduceva così:

«È lecito resistere al pontefice che invade l'anima, che turba l'andamento delle pubbliche cose, e molto più, se si vede distruggere la Chiesa. È lecito, ripeto, resistergli, non facendo quello che comanda, ed impedendo che esegua la sua volontà. Nondimeno non è lecito condannarlo, punirlo e deporlo, il che non è che dei superiori»

Tratto dalla controversia De romano pontifice (Libro II, cap. XIX, col. 690 dell'edizione di Parigi del 1608), con questa citazione Toscanelli intendeva ridimensionare le pretese di Leone XIII e invitare gli italiani cattolici alla disobbedienza verso il pontefice. Questo uso politico dell'opera di Bellarmino, che Toscanelli non mancò di elogiare come «somma autorità, sommo dottore della chiesa», non giunse probabilmente subito a Leone XIII: sarà infatti «qualche zelante» - come si sostiene nel documento presente nella corrispondenza di Le Bachelet - a farglielo notare e a osservare «che non era opportuno trattare la causa di un servo di Dio delle cui parole potevano bene o male servirsi come di un'arma i nemici della S. Sede». A quel punto la decisione del pontefice non tardò ad arrivare: la causa di beatificazione del Bellarmino doveva essere sospesa. Era il 1892 e bisognerà attendere il 1918 affinché essa venisse riesaminata per l'ultima (e decisiva volta): nel 1923 Bellarmino sarà beatificato, nel 1930 canonizzato e nel 1931 sarà nominato dottore della Chiesa - qualifica, quest'ultima, usata pure quarant'anni prima dal deputato Toscanelli.