Medicina e Religione

È sempre operazione feconda riflettere sulla cornice storica e teorica di concetti e tematiche che si intendono esaminare, specie se tale riflessione indaga la sfera più generale della struttura sociale. La società di antico regime, stratificata e gerarchica, si basa su una visione del mondo ontologica e unificata fondata sulla morale religiosa e privilegia la semantica dell’onore e della virtù per fissare le differenze di rango. In tale contesto la medicina non può vantare ancora uno statuto autonomo in quanto strettamente connessa ad altre discipline, alla morale e alla teologia che, nella gerarchia dei saperi, predomina su tutte le scienze. Scientia, dotta dottrina, conoscenza speculativa in contrapposizione alle discipline pratiche e al concetto di opinione comune, sono alcune delle modalità con cui si designava questo campo semantico nella modernità. Le scienze del tempo non sono più considerate come un blocco di discipline in gestazione ma piuttosto come un sistema di circolazione di problemi e pratiche da un campo all’altro tale da conferire un senso fluttuante ed esteso al termine.

Fig.1 - Rembrandt, Lezione di anatomia del dottor Tulp, 1632.

Il concetto di malattia, che la medicina scolastica consegna ai filosofi e ai medici della modernità rinascimentale, è segnato da un eclettismo costituito da contraddizioni interne che per loro natura generano interpretazioni discordanti e quindi dispute interminabili. Una lunga tradizione che risaliva a Ippocrate e Galeno, Oribasio e Avicenna, sulla quale era basato l’insegnamento nelle università e che costituiva la risposta paradigmatica a ogni manifestazione patologica, era giunta all’apice.  Nondimeno, all’interno del quadro di riferimento del galenismo e della teoria degli umori, emergono con nettezza impulsi di rinnovamento, le cui radici sono ravvisabili in molteplici fattori tra cui il richiamo ad una lettura rigorosa dei testi della tradizione galenica, una certa erosione dell’attitudine a credere e l’appello costante all’osservazione diretta e al rispetto dei fatti. Le dissezioni anatomiche consentono di osservare una relazione tra le manifestazioni cliniche delle malattie nei soggetti in vita e le modificazioni morfologiche delle strutture interne accertate dopo il decesso. Siamo di fronte a un atteggiamento mentale nuovo, un’attitudine che attraverso l’osservazione diretta, l’autopsia, consente l’identificazione di stati patologici altrimenti invisibili. Al tempo stesso, vengono recuperate categorie che la scienza greca aveva espulso dal terreno della conoscenza. Riemergono in pieno Rinascimento nozioni quali contagio e influenza astrale, che avevano accompagnato le pestilenze medioevali.  

La specificazione funzionale della medicina ovvero l’acquisizione del monopolio nella cura delle malattie e l’affermarsi come sapere autonomo è un processo lungo che si attesta con pienezza solo nel XVIII secolo. Un percorso agevolato dalla sua accademizzazione nelle università e dall’imporsi del laboratorio come luogo del sapere che sposta lo sguardo dal paziente come oggetto esclusivo di analisi per la comprensione delle malattie. Al punto di arrivo di tale sviluppo, il medico ormai al vertice della gerarchia, svolge un ruolo preminente sulle altre professioni legate alla cura.

Tale mutamento coinvolge e trasforma l’interazione asimmetrica tra medico e paziente a favore del primo, capovolgendo una prassi consueta per cui il medico relegato nel “ruolo dell’ospite” doveva tener conto, nella formulazione della diagnosi, delle ipotesi avanzate dal paziente circa il male che lo affliggeva. Nel XVI secolo e ancora fino al XVII il paziente, appartenente ad una classe sociale elevata, interviene nella cura delle proprie patologie facendo valere il proprio status sociale sull’azione del medico, il quale deve conformare la scelta della terapia al suo stile di vita, al costume e al prestigio della sua classe sociale.

Fig. 2 - Andrea Vesalio, De humani corporis fabrica, 1542.

Il discorso diventa più complesso se si osserva quanto accade nel campo dell’anatomia, dove l’oggetto del sapere transita dal corpo vivente al cadavere, corpo morto. Tale processo origina nell’umanesimo con la rottura del quadro classico e il passaggio dai testi all’osservazione diretta della natura e culmina nell’opera di Andrea Vesalio De humani corporis fabrica (1543) dove l’anatomista dà forma all’assunto per cui un rinnovamento delle conoscenze può giungere solo da una cooperazione profonda tra speculazione intellettuale e indagine de visu.

L’osservazione in situ, preliminare alla scrittura, diventa il mezzo per affermare e designare un nuovo gesto epistemico, un procedimento cruciale non solo per gli anatomisti ma anche per naturalisti, artisti e pittori. Questa arte di vedere ingaggia nuove pratiche e nuovi luoghi per l’esercizio del sapere: teatri anatomici, giardini botanici, musei e illustrazioni. Un arco di esperienze, di innovazioni radicali, tese icasticamente tra i Fasciculus Medicinae (1493) di Giovanni da Ketham in cui il medico legge e il sector apre il corpo e le rappresentazioni di Vesalio in cui il medico disseziona e usa il libro per registrare quello che osserva. «L’anatomia diventa historia nel senso di descrizione progressiva o fabrica nel senso di immagine della struttura fondamentale del corpo. E Michelangelo, scrive Vasari, “infinite volte fece anatomia, scorticando uomini per vedere il principio e legazioni dell’ossatura, muscoli, nerbi, vene e moti diversi”» (A. Prosperi, Prefazione, in A. Carlino, La fabbrica del corpo. Libri e dissezione nel Rinascimento, p. XI).

La pratica dell’anatomia, d’altronde, non era in contrasto con la tradizione cristiana che fin da Agostino aveva riaffermato la singolarità dell’istante conclusivo dell’esistenza, allorché l’anima si separa dal corpo. E infatti la Chiesa cattolica non ha mai posto ostacoli alla ricerca anatomica. Sisto IV, con la Bolla del 1472, ne riconosce l’utilità nella “pratica medica e artistica” e Clemente VII ne formalizza l’insegnamento.
Per quanto riguarda i territori dello Stato della Chiesa, gli statuti di Clemente VII del 1531 regolamentano non solo la prassi per gli aspiranti al grado di dignitas doctoris ma disciplinano anche la pratica dell’anatomia e con essa le categorie ove era lecito attingere materiale, ovvero figure ai margini della società la cui violazione del corpo consentiva di superare disagi e tabù. Il ristretto gruppo dei doctores (il protomedico, i membri del Collegio, i lettori, l’archiatra) costituiva la struttura gerarchica, con a capo il Pontefice, che vigilava sulla coerenza tra la condotta etica e professionale dei medici e i principi religiosi che fondavano il funzionamento di ogni apparato dello stato. Ogni momento della prassi medica, della didattica e della ricerca doveva conformarsi ad essi. E tanto valeva anche per la pratica della dissezione.
 

Bellarmino e il corpo

L’invocazione testamentaria di Bellarmino appartiene al complesso reticolo delle strategie di costruzione della santità che, sottraendo materialmente il corpo dalla scena agiografica, sembra colpire al cuore una lunga tradizione di cui esso era stato il cardine su cui fondare ogni discorso apologetico. Si pensi, ad esempio, alla consuetudine che vedeva il corpo di individui in odore di santità, divenire oggetto di una serie di pratiche: dall’apertura all’estrazione dei visceri, alla raccolta di liquidi, frammenti e resti custoditi come reliquie miracolose. Un percorso che aveva avuto il punto di svolta tra l’XI e il XIV secolo allorché, sotto l’impulso predicatorio degli Ordini Mendicanti, si affermò un modello di santità fondato non solo sul potere delle reliquie bensì su requisiti più elevati. Fu così che la panoplia di atti sul corpo e degli attributi e poteri emananti da esso, il meraviglioso fisiologico, si estese a comprendere la loro esistenza terrena. E in tale passaggio la virtus «quella forza immanente di cui si constata l’efficacia ma di cui si ignorano le leggi» [A. Vauchez, La santità nel medioevo, p. 435], da influsso misterioso che promanava dalle sepolture dei santi si sarebbe sublimata in una serie di doni speciali, dall’ascetismo al sapere teologico, che Dio destinava ai suoi servi durante la vita. Il sapere teologico del cardinale, autorevole controversista, era fuori discussione. Eliminare il corpo dalla scena agiografica affidando l’unico dire alla prestigiosa ed estesa militia contro le eresie post-tridentine appare come una strategia raffinata e lungimirante.   

L’esperienza del corpo rappresenta un tassello essenziale nel quadro dell’identità sociale. Con essa si diventa coscienti di essere osservati, di essere partecipi di un sistema di aspettative da cui origina il meccanismo dell’integrazione. L’essere umano è sempre immerso nella permanente comparazione tra ciò che percepisce e prova e l’osservazione degli altri; condizione, quest’ultima, che rinvia al dilemma sul “come” si desidera essere osservati. In tal senso il corpo diventa persona ovvero oggetto di decisioni, approvazione o rifiuto sociale con cui la coscienza può identificarsi ma che può anche respingere, come dimostra l’esperienza dell’asceta colto da un inaspettato piacere peccaminoso per i tormenti patiti. Nell’Europa di antico regime l’interazione tra i soggetti e la società si struttura principalmente in forma normativa e morale. L’insegnamento della retorica disciplina il corpo attraverso un raffinato modello di regole. Solo in epoca più tarda il corpo sarà osservato a partire dalla concezione psichica che vi attribuisce interiorità psicologica per spiegare il suo comportamento. È plausibile supporre che il cardinale fosse consapevole circa il percorso di santità che l'officina agiografica andava elaborando su di lui. In questa chiave, le parole del testamento si possono leggere come una voce di rifiuto di tale itinerario. Ciascuno può scegliere di soddisfare le aspettative esterne nel momento in cui sa di essere osservato o di deviare da esse nella direzione di una maggiore individualità. Al contempo, tale rinuncia può essere interpretata come una prova di modestia - il santo come l’eroe non deve «finire troppo vicino a una imbarazzante lode di sé stesso» [N. Luhmann, Che cos’è la comunicazione?, p. 108] - quella modestia che, secondo il parere di alcuni cardinali che lessero la sua Autobiografia, sarebbe mancata al teologo (cfr. la sezione Le rappresentazioni del sé).

Roberta Grossi (Archivio della Società Missioni Africane)

Nota bibliografica e documentaria:

A. Corti, La medicina cambia. Il rapporto medico/paziente in prospettiva storica, in G. Corsi (a cura di), Salute e malattia nella teoria dei sistemi a partire da Niklas Luhmann, Milano, FrancoAngeli 2015. A. Carlino, La fabbrica del corpo. Libri e dissezione nel Rinascimento, Torino, Einaudi 1994. V. Giacomotto-Charra, M. Marrache-Gouraud (dir.), La Science prise aux mots. Enquête sur le lexique scientifique de la Renaissance, Paris, Classiques Garnier 2021. L. Giard, L’ambiguïté du mot «science» et sa source latine, in A. Romano (dir.) Rome et la science moderne: entre Renaissance et Lumières, Rome, Publications de l’École française de Rome 2009. M. Grmek, Storia del pensiero medico occidentale, vol. 2, Dal Rinascimento all’inizio dell’Ottocento, Roma-Bari, Laterza 1996. A. Paravicini-Bagliani, Il corpo del papa, Torino, Einaudi 1994. Su "Bellarmino e il corpo" cfr. N. Luhmann, Che cos’è la comunicazione?, A. Cevolini (a cura di), Milano-Udine, Mimesis 2018. A. Mendiola, Retórica, comunicación y realidad. La construcción retórica de las batallas en las crónicas de la conquista, Ciudad de México, Universidad Iberoamericana 2003. A. Vauchez, La santità nel medioevo, Milano, Mulino 1989.